Mi chiamo Alice, ho 27 anni e domani mi sposo

Mi chiamo Alice, la mia storia
Mi chiamo Alice, ho 27 anni, e domani mi sposo

Mi chiamo Alice, ho 27 anni. Domani mi sposo. Mi trema il cuore dalla felicità. Sento tutte le farfalle nello stomaco, di tutto il mondo, tutte dentro. Sposo Luigi, l’amore della mia vita, l’amore che arriva e ti ci butti dentro. Ed è bellissimo.

Comincia così la storia di Alice, solo omonima di mia nipote,  che potete leggere per interno sulla pagina Facebook Nereidi alla deriva.

Quella di Alice può sembrare una storia bella: iniziare con un mi chiamo rimanda ad un che di gioiosità quasi da bambini. La storia, che potete leggere per intero su questo file, non prosegue per nulla bene.

Il problema, oltre che quello della violenza sulle donne, è quello del menefreghismo strisciante: almeno, io lo chiamo così.

Una persona una volta aver chiamato i soccorsi (in un caso del genere, come in altre occasioni) crede di aver compiuto il proprio dovere. Io non sono d’accordo. Se è vero che esistono

  • Medici
  • Assistenti sociali
  • Altre figure preposte

Alice, così come altre donne che hanno subito la stessa sorte, avrebbero potuto essere salvate sia dalla legge, sia dagli altri. Se, come ripeto costantemente, avessimo ascoltato Alice, a quest’ora avremmo una persona viva in più, una donna morta in meno e un processo in più da celebrare in tribunale.

Invece, molto spesso, apprendiamo il ri-chiamo di Alice solo quando il suo nome compare all’interno di un articolo di giornale o di un servizio televisivo. Al massimo, quando un’associazione si sbatte  un po’ per mettere a posto quelle situazioni che richiedono giustizia.

Proprio parlando con Alice avremmo potuto contattare queste associazioni. Non dico che poi ci avrebbero pensato loro, ma avrebbero seguito la vicenda insieme a noi in modo più professionale.

Invece, se una cosa non ci riguarda personalmente, non ci interessiamo ed Alice è morta. Non sarebbe ora di cambiare atteggiamento?

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