Ogni tanto, comunque sempre troppo spesso, capita di presenziare ad un funerale, come capita a Rocky in una famosa scena del quarto film della saga.
Nei film americani è usanza che una delle persone che intervengono al funerale faccia un discorso in memoria del defunto o della defunta.
Mi piace immaginare che ogni italiano ricordi la vita del caro estinto con un discorso che nasce per il cinquanta percento nella propria testa. La restante parte verrà dal cuore. Il discorso può anche non essere pubblico, ma può essere semplicemente recitato fra sé e sé nei momenti di sconforto.
Il soggetto dell’epitaffio non deve essere per forza degno da essere ricordato nei libri di storia. Basta che sia stato sufficientemente buono ed amato dai propri cari.
Chi interviene ad un funerale, dovrebbe aver imparato – se possibile – qualcosa dalla vita e dalla morte del defunto, oltre che dalla dinamica che lo ha fatto morire.
Purtroppo, sembra che terminato il funerale la vita delle persone meno legate al defunto prosegua come se nulla fosse. A volte, anche i parenti più stretti sembrano non dare peso alla vicenda, quantomeno in pubblico.
Il motivo non risiede nella scarsa empatia o in un carattere freddo. Molto spesso, chi si mantiene più distaccato fatica a metabolizzare il dolore, che non si esaurisce certo con il funerale. Per negare il dolore, ecco che qualcuno si ributta a capofitto nelle dinamiche quotidiane.
Questo è uno dei rari casi in cui sono a favore della solitudine. Concedersi dei momenti per stare da solo può sembrare una scusa per mostrarsi forti in pubblico o – se volete – celare i propri momenti di debolezza.
In realtà, se proprio non riusciamo né a confidarci, né a piangere in pubblico, può essere utile stendersi sul letto e dare sfogo alle proprie emozioni nel modo che riteniamo più opportuno.